Jean Jacques Rousseau sosteneva che “ogni uomo nasce buono e giusto, e se diventa ingiusto la causa è da ricercare nella società che ne corrompe l’originario stato di purezza”.

L’idea che la società sia causa fondamentale della corruzione e della degenerazione umana è vera nel senso che essa sovrasta l’individuo, lo educa a rapporti sociali consolidati, alle proprie credenze e alle proprie abitudini e dunque lo costringe ad agire “male”, in modo non autentico, non genuino e dunque disumanizzante.

Anche Erich Fromm, in merito al suo meticoloso studio sulla società, riteneva che l’uomo non nasce aggressivo, ma lo diventa a causa del sistema in cui egli è stato costretto a sopravvivere.

In ambito umano entra in gioco il sistema sociale che fa dell’aggressività un fenomeno acquisito: l’uomo diventa aggressivo quando si sente frustrato e perché ha imparato a farlo in famiglia e nella società.

Aggressività è quindi l’istinto dell’uomo che vuole affermare se stesso, un istinto di sopravvivenza che si può manifestare direttamente, nel litigio, nella lotta e nella guerra, oppure può essere mascherato nello scherzo, nel pettegolezzo, nella maldicenza….

Tuttavia sappiamo bene che tale meccanismo non funziona per tutti allo stesso modo, e proprio dalla degenerazione dell’istinto di difesa e di aggressione molti si sentono autorizzati ad attaccare e a colpire fino a dominare gli altri individui che, per loro natura, non hanno la capacità di utilizzare tale istinto, diventando così prede di cacciatori avidi e violenti.

E così, nell’uomo, l’aggressività può diventare distruttiva.

Quanto siamo colpevoli e quanto vittime delle circostanze?

Se proiettiamo questo istinto nell’ambito lavorativo, possiamo sostenere che il “mobbing”, il cosiddetto terrorismo psicologico praticato nell’ambito del rapporto di lavoro, è sempre esistito, ma solo adesso comincia a diffondersi una sua teorizzazione e, soprattutto, si cerca di studiarne le motivazioni e le dinamiche.

Perché solo oggi si comincia a parlare di mobbing?

Le nuove direttive europee, in tema di sicurezza nei luoghi di lavoro, stanno ponendo una sensibile attenzione alla salute del lavoratore con particolare riguardo al suo benessere psicofisico.

Questo grande interesse al benessere del lavoratore coincide con un periodo in cui stiamo assistendo a un grandissimo mutamento dello scenario del mondo del lavoro, condizionato dal passaggio verso una tipologia economica influenzata profondamente da un mercato che punta alla globalizzazione e che, trovando approvazione dalla cosiddetta “new economy”, sta portando ad una frammentazione del mondo del lavoro.

Questo cambiamento del nuovo modo di lavorare ha fatto emergere l’esistenza di “nuove fonti di rischio”, rapportabili alle condizioni socio-economiche del lavoratore, caratterizzate da un aumento della precarietà, della disoccupazione, dai processi di fusione e riorganizzazioni aziendali, tutti disagi in grado di dare origine a vere e proprie psico-patologie.

Questi stimoli molto forti possono condizionare risposte emotive e comportamenti che generano eventi lesivi per il normale funzionamento psichico: il cosiddetto “Mobbing”.

Il termine Mobbing deriva dall’inglese “to mob” che significa attaccare con violenza, assalire, malmenare, aggredire.

E’ stato lo psicologo tedesco Heinz Leymann che per primo ha introdotto questo termine negli anni ’80 nella medicina del lavoro, e che lo ha applicato a un nuovo disturbo che aveva osservato in alcuni operai ed impiegati svedesi sottoposti ad una serie di intensi traumi psicologici sul luogo di lavoro.

In Italia, il primo ricercatore ad interessarsi del Mobbing è stato Harald Ege, intorno agli anni ’90, che lo definì “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro esercitata attraverso comportamenti aggressivi e persecutori ripetuti da parte di colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti per un periodo di almeno sei mesi”.

La vittima scivola progressivamente verso una condizione di estremo disagio e terrore psicologico che, con il passare del tempo, danneggia il suo equilibrio psico-fisico.

Numerosi studiosi si sono dedicati successivamente all’approfondimento del Mobbing analizzandolo sia dal punto relazionale che emotivo; dobbiamo alla psicoanalista francese Marie France Hirigoyen l’introduzione del termine “molestie morali” come sinonimo del Mobbing.

In momenti di tensioni sociali dovute anche a crisi economiche come quelle attuali o altro, a volte può capitare che il Mobbing provenga dall’alto, ossia attuato da un superiore gerarchico, o più in generale, da una direzione aziendale; è il cosiddetto “bossing” o “mobbing strategico”, mediante la messa in atto di situazioni che possono mettere alcuni dipendenti nelle condizioni di dimettersi. Di conseguenza, il rischio di perdere il posto di lavoro fa crescere lo stress e la demotivazione.

Ritornando a Herald Ege, la caratteristica del mondo del lavoro italiano è rappresentata da un elevato grado di conflittualità tra i lavoratori, che viene percepita come regola; si tratta di banali diverbi di opinione, discussioni, piccole accuse o ripicche, che fanno emergere la volontà di primeggiare sugli altri.

A seguito di tali comportamenti, si può arrivare ad un vero e proprio “conflitto mirato”, in cui viene individuata la vittima ed è presente la coscienza di voler distruggere l’avversario.

Un conflitto non risolto, risultato di rivalità, lotte di potere, è la tipica situazione che spinge alla ricerca di un caprio espiatorio.

Il Mobbing, in quanto fenomeno di gruppo, necessita infatti della presenza di attori diversi, quali il “mobber” e il “mobbizzato”, e dall’altra il “side mobber”, lo spettatore che “sta a guardare e non interviene”.

Il “Mobber” (il persecutore) può essere un superiore, un collega o un gruppo di colleghi, che utilizzano il loro potere distruttivo per eliminare una persona divenuta in qualche modo “scomoda”, inducendo la vittima alle dimissioni.

Il “Mobbizzato” (la vittima) è il destinatario di queste strategie comportamentali, volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. Di fronte a questi attacchi, ripetuti con una certa frequenza, la vittima prova un senso di isolamento, un sentimento di autocolpevolizzazione, cercando la causa del fenomeno nei propri comportamenti, diventa bersaglio di una sottile e diabolica aggressione da parte di un carnefice dalla quale non riesce a sottrarsi, soprattutto in un periodo di difficoltà economica in cui si fa e si accetta tutto pur di non “rimanere per strada”!

La vittima scaricherà tutti i suoi disagi e le sue sofferenze nella famiglia che, inizialmente sarà comprensiva, ma poi anch’essa tenderà nei casi estremi ad isolare l’individuo e mettendo in atto quello che è stato definito “doppio mobbing”.

Dal punto di vista psicologico, chi è veramente il “mobber”?

Non è semplice definire con certezza e precisione le caratteristiche del possibile Mobber; tuttavia, Harald Ege ha delineato dei potenziali profili di mobber che si riscontrano con maggiore frequenza:

l’istigatore, che è sempre alla ricerca di nuove cattiverie e maldicenze volte a colpire gli altri e, credendo di ottenere vantaggi dalla loro distruzione, pianifica sempre nuove strategie per stressare e distruggere la sua vittima; non è disposto a cercare una soluzione al conflitto e quindi difenderà le sue posizioni con tutti i mezzi;

il collerico, che non riesce a contenere la rabbia e far fronte ai suoi problemi e solo prendendosela con gli altri riesce a scaricare la forte tensione interna; vivere con lui è difficile anzi, quasi impossibile. Il suo carattere gli impedisce di controllare e trattenere i suoi sentimenti, per cui tende ad esplosioni di collere anche violente, non tollerando le mancanze degli altri. Il suo comportamento è del tutto imprevedibile e i suoi continui cambiamenti di umore mettono a dura prova i nervi dei colleghi;

il megalomane, che ha una visione distorta di se stesso considerandosi sempre al di sopra, un senso di Io grandioso che lo autorizza a colpire gli altri ritenuti inferiori. Si vanta perchè crede di essere quello che lui vorrebbe essere, e mobbizza chiunque possa mettere in discussione l’autorità che crede di avere. E’ il tipo che desidera essere sempre al centro dell’attenzione;

il frustrato, l’individuo insoddisfatto della sua vita che scarica il suo malessere sugli altri che diventano tutti nemici, perché non soffrono dei suoi problemi. In lui c’è sempre una componente di invidia e di gelosia verso gli altri. 

In definitiva, possiamo affermare con certezza che il Mobber non è una persona forte, ma è il “vero malato”, la “vera vittima”. 

Per ogni mobber troviamo una potenziale vittima, una persona che mostra dei sintomi di malattia, si ammala, si assenta dal lavoro, si licenzia; è colpita da stress psichico o fenomeni psicosomatici, attraversa fasi di depressione o attacchi di panico; da un lato è convinta di non avere colpa, dall’altro crede di sbagliare sempre tutto; mostra mancanza di fiducia in sé, indecisione e un senso di disorientamento.

Leymann offre una definizione del mobbizzato ancora più semplice ed intuitiva: “vittima è colui che si sente tale”.

Comunque sia, il tratto tipico del mobbizzato è l’isolamento, è trovarsi letteralmente con le spalle al muro, spesso senza sapere nemmeno perchè.

Secondo le attuali ricerche sul mobbing, si può affermare che la vittima può essere chiunque.

Colpisce in tutti gli ambienti di lavoro e in tutte le culture, non ha pregiudizi sessuali e nemmeno gerarchici, anche se è molto più frequente il mobbing “dall’alto”, quindi posto da un superiore, dal capo ufficio, dal dirigente, e comunque da un “capo”.

Occorre infatti riportare l’attenzione, soprattutto in questi tempi di crisi, alla fondamentale importanza ricoperta dalle figure che ci guidano, i capi e i leader delle aziende, che devono aiutarci a trovare delle nuove motivazioni e a saper “vedere oltre”, a sviluppare il cosiddetto “pensiero divergente”.

Qual è la vera differenza tra un capo e un leader?

Il capo è colui che si trova sopra, più in alto e che dispone di poteri di comando, per guidare un gruppo verso un determinato obiettivo

Il leader è colui che conduce, che sfrutta strategie e comportamenti non autoritari, mettendosi a disposizione del gruppo per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Theodore Roosvelt ha riassunto il concetto con una breve frase: “la differenza tra un leader e un capo è che il primo guida i propri uomini, mentre il secondo si limita a condurli”.

Quindi, possiamo trarre delle semplici conclusioni: ogni leader è un capo, ma ogni capo non è il leader.

Il leader deve sempre dare l’esempio e tira fuori il meglio dal suo gruppo.

Il capo utilizza il potere. Il leader l’energia.

La grafologia rappresenta un ottimo strumento che ci permette di “leggere dentro” e di svelarci le differenti personalità del capo e del leader che qui di seguito propongo:

Figura 1 – Uomo di 46 anni -Dirigente d’azienda

Dotato di logica e continuità nelle azioni, nelle attività intellettive e di pensiero, ha un’intelligenza istintiva basata sulla percezione sensoriale delle cose.

Il pensiero è immediato, concreto e tempestivo; tuttavia, si lascia trasportare dalle sue sensazioni che lo portano ad essere carente di obiettività e di senso critico (distanza tra parole molto stretta). Si evidenzia infatti una difficile gestione dell’emotività (confusa e spasmodica). La sua introversione passiva lo porta a sostenere un punto di vista soggettivo che rende carente la sua comprensione verso l’altro (calibro piccolo – stentata – riduzione delle distanze). E’ estremamente concentrato sulle sue affermazioni che difende molto bene anche verbalmente (tagli t ingrossati e lunghi).

La scrittura ci svela un senso di insicurezza e di indecisione che sembra provenire dal bisogno e dalla ricerca continua di conferme dall’esterno (tentennante).

Tale insicurezza non intacca il processo intellettivo, ma ne rallenta l’espressione. La sfera delle emozioni disturba l’Io, ne fa oscillare le difese e quindi crea frustrazione.

Sarà molto prevenuto nei confronti dell’altro se viene contrariato, dando libero sfogo a una certa aggressività. Tende ad investire la propria carica nel pratico, dimostra forte interesse per tutto ciò che è concreto e materiale, lasciando grande spazio all’istinto (code verso il basso, riccio dell’ istintualità). Un buon capo “esecutore”, dotato di un ottimo istinto e concretezza.

Deve tuttavia tenere a bada l’emotività e l’aggressività, utilizzate per compensare la sua profonda insicurezza esistenziale e non diventare un potenziale “mobber” (collerico o frustrato?)

Figura 2 – Uomo di 70 anni

Ex Direttore Generale – attuale Amministratore Delegato

Grafia ritmata che rivela una personalità profonda e intensa, un buon equilibrio tra istinto e ragione, un rapporto positivo con le proprie dinamiche interiori e con l’ambiente circostante.

Il temperamento deciso riesce, grazie alla capacità di assimilazione e di introspezione, ad essere all’occorrenza accomodante. La sua forza e la sua determinazione sono supportate da un forte deposito istintuale.

Ama esibirsi con un certo stile personale, anche a livello intellettivo (grafia dinamica, originale). L’inclinazione della grafia esprime autocontrollo, fermezza, solidità.

Il soggetto predilige l’atteggiamento razionale, sa sostenere le proprie posizioni. Giustamente intraprendente, riesce a imporsi su cose e situazioni tramite l’intuito psicologico (sinuosa), che gli permette di entrare in risonanza con gli altri, di comprendere i fini dell’azione.

Il temperamento bilioso lo porta alla continua tensione al risultato; predominano una buona energia, ostinazione, spirito di opposizione e combattività.

Il leggero rovesciamento a sinistra della grafia ci rivela un atteggiamento difensivo e prudente, da cui può derivare un blocco della spontaneità che lo induce ad assumere atteggiamenti talvolta scontrosi, sostenuti e alteri, che in realtà celano una tacita e inconscia richiesta di appoggio.

Sicuramente non esita a manifestare se stesso e ciò che pensa.

La sua spontanea disposizione alla chiarezza e alla calma, consente una piena espressione delle facoltà intellettive, senza essere disturbato da contaminazioni emotive e lo rende capace di portare a compimento un’azione rispettando la natura della cosa esaminata.

Posto di fronte alla necessità di operare una scelta, decide rapidamente, valutando e bilanciando tutti gli aspetti della questione.

Dotato di capacità critiche (buona distanza tra parole) e di intelligenza basata sulla concretezza, queste gli permettono di investire in attività produttive, fattive ed operative.

Un ottimo leader, sicuramente in grado di dare un buon esempio e di “guidare” aziende e persone, capace di motivare ma anche di spronare e scuotere con forza e aggressività, quando necessario.

Un leader dotato di grande sensibilità ma che sul campo predilige il ruolo del “guerriero dalle modalità di assalto

Ma ora vediamo le grafie di un potenziale mobber e di un potenziale mobbizzato, prendendo come esempi degli scritti in stampatello e script che svelano due personalità completamente differenti, ma entrambe problematiche:

Figura 4 – Uomo di 35 anni

Impiegato Ufficio Informatico

Figura 3 – Uomo di 46 anni

Direttore Generale